Thomas Gravesen, uno dei calciatori più sopra le righe del calcio
Passato alla storia come uno dei giocatori più fastidiosi del calcio internazionale, per molti il percorso del centrocampista danese, con un passaggio anche al Real Madrid, è andato ben al di là delle sue qualità tecniche: ecco perché e la storia di Thomas Gravesen.
Thomas Gravesen, vita da duro
Giocatori come Gravesen, oggi, non ce sono quasi più. Probabilmente è un bene, anche se in realtà in molti un po’ rimpiangono, in qualche modo, un certo tipo di calcio, più spiccio e meno arzigogolato, rappresentato anche da interpreti come il centrocampista danese, simbolo di un futbol che possiamo giù oggi considerare come “antico”, lontano dalla dittatura di telecamere, sceicchi arabi e presidenti FIFA in vena di onnipotenza.
La storia calcistica di Gravesen, anche rispetto ad altri giocatori famosi per il loro temperamento spesso oltre i limiti, è forse la più esagerata di tutte. Se da una parte, infatti, ci sono le caratteristiche tecniche di un onesto operaio del centrocampo, dall’altra c’è una carriera andata ben oltre il talento di calciatore del danese.
Dopo gli inizi del Vejle, nella squadra della sua città natale, Gravesen sbarca in Germania, all’Hamburger SV, nel 1997: ha 21 anni. Con i tedeschi gioca due stagioni e mezzo di Bundesliga, facendosi notare per la sua solidità, caratteristica che gli vale la chiamata dalla Premier League, all’Everton, dove nel corso di quattro stagioni e mezzo diventa un perno fondamentale dei Toffies.
155 presenze, 11 gol e soprattutto la fama di trascinatore della squadra, conquistata a colpi di interventi duri, battaglie a muso duro contro gli avversari, un’iconografia da “cattivo” facilitata anche dai connotati fisici di Gravesen, un “cubetto” da 183 cm per 85 chili.
È all’Everton che Gravesen si conquista definitivamente l’etichetta di “villain”, di giocatore che intimorisce gli altri giocatori, di bullo dal quale stare alla larga. D’altronde Gravesen già all’epoca è un personaggio che spesso fa parlare di sé anche fuori dal campo.
Quando giocava all’Amburgo si faceva, prima che la dirigenza tedesca lo scoprisse, fermandolo, 600 chilometri in moto al giorno da casa sua, a Vejle, agli allenamenti in Germania. Anche per questo i tifosi inglesi, a un certo punto, cominciano a chiamarlo “Mad Dog”, cane pazzo. Perché pensano, letteralmente, che Gravesen non sia perfettamente normale. Pensano, appunto, che sia pazzo.
L’esperienza surreale al Real Madrid e la vita dopo il ritiro
Nel gennaio del 2005 avviene l’incredibile. Gravesen ha il contratto in scadenza alla fine dell’anno, l’Everton rischia di perderlo a zero. Il danese è già conosciuto a livello internazionale per i suoi comportamenti dentro e fuori dal campo, è un nazionale da oltre 50 gettoni col maglia del suo paese ma non sembra un giocatore da top club.
E invece, arriva la chiamata del Real Madrid (in quel momento allenato dal brasiliano Vanderlei Luxemburgo e con Arrigo Sacchi direttore tecnico) che lo paga meno di 3 milioni di euro e lo porta al Santiago Bernabeu con l’idea di inserire un elemento di battaglia ed equilibrio all’interno del centrocampo tutto giocate e fantasia dei “Blancos galacticos”.
Con il Real, in una stagione e mezza, Gravesen alla fine mette insieme, in tutte le competizioni, 49 partite e 1 gol, ma si lascia alle spalle, quando nel 2006 se ne va al Celtic, anche una marea di polemiche e un immaginario vicino al mitologico.
Si parla di Mike Tyson che gli chiede una maglietta perché ne ammira la cattiveria, di un dente rotto a Ronaldo in allenamento, dello stesso Ronaldo il Fenomeno che anni dopo sottolineerà quanto Gravesen fosse scarso, di una lite con Robinho, di rutti in faccia a Fabio Capello.
Da lì in avanti Gravesen gioca ancora due stagioni, una al Celtic di Glasgow, appunto, e poi un’ultima, triste stagione all’Everton, prima di ritirarsi, ad appena 32 anni, anche perché non trova nessuna squadra disposta a offrirgli un contratto.
La sua vita post-ritiro non è però meno interessante di quella da giocatore. Gravesen infatti, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, si trasferisce a Las Vegas, diventa un giocatore professionista dei casinò e mette da parte, secondo alcune stime, una cifra vicina ai 100 milioni di euro con le vittorie al tavolo da gioco, vincendo soprattutto al blackjack.
Poi si stanca, torna in patria, in Danimarca, lavora come commentatore, si lancia in investimenti immobiliari, soprattutto costruisce il Vejle Padel Center, una struttura enorme, da 20 campi, dedicata al padel e che lo afferma definitivamente nel mondo immobiliare danese. Un personaggio insomma, che lo si ami o meno, ancora più complesso e sfaccettato di quanto potesse apparire sul campo.