Intervista a L. Mondellini (CeF) tra nuovo regime ADM e il futuro del betting nel calcio
In questa intervista esclusiva, Luciano Mondellini (Direttore di Calcio e Finanza e Sport e Finanza) ha espresso il suo punto di vista sullo scenario del gioco online legale e come i club potrebbero sfruttare la nuova realtà alla luce dell’entrata in vigore del nuovo regime regolamentato ADM del 13 novembre. Il tutto spaziando tra gli effetti del Decreto Dignità e il futuro delle collaborazioni tra operatori e sport.
Il 13 novembre è una data importante per il mondo del gioco online. Entra infatti in vigore il nuovo regime regolamentato ADM: stop alle skin, 52 licenze rilasciate a 46 operatori, un solo sito per licenza, obblighi rafforzati di gioco responsabile. Un mercato così selettivo, con meno operatori ma più stabili e controllati, può essere un’opportunità di crescita economica per i club, magari con partnership più solide? Oppure rappresenta un ulteriore limite?
Può essere molto importante. Un mercato del gioco più selettivo significa interlocutori più solidi, con governance chiare e quindi responsabilità più stringenti. Questo riduce il rischio reputazionale per i club, che è da sempre una delle loro preoccupazioni principali. Si può finalmente parlare di partnership che non siano solo commerciali, ma anche orientate a progetti di integrità sportiva, educazione al rischio, formazione. Oggi il divieto pubblicitario limita molto questo tipo di collaborazione, ma se il quadro evolvesse verso un modello più responsabile – non certo un “liberi tutti” – i club potranno dialogare con operatori più qualificati e strutturati. È molto meglio così.
Questo nuovo mercato più trasparente e conforme alle regole può migliorare anche la percezione del betting presso i club e le istituzioni, rendendolo un partner più accettabile? O pensi che il problema reputazionale persisterà?
Può aiutare, ma non basta da solo. La reputazione è anche una questione di comportamenti, oltre che normativa. Gli operatori devono dimostrare coerenza nel promuovere gioco responsabile, trasparenza e prevenzione. Quando questo accade, la percezione cambia: non è più un settore “borderline”, ma un’industria regolata che contribuisce al finanziamento dello sport. Succede già in molti Paesi europei e occidentali, dove lo sport è un settore trainante dell’economia.
Dal 2018 vige il Decreto Dignità. Il rapporto diretto tra club e operatori è cambiato: niente più sponsor sulle maglie o bordo campo, ma il settore resta parte del sistema calcio tramite gettito fiscale, monitoraggio dell’integrità sportiva e contrasto al match fixing. Secondo uno studio FIGC, i club hanno perso 600 milioni di euro da allora. In Premier League il divieto riguarderà solo le maglie, dal 2026/27. Alla luce di tutto questo, è il caso di ripensare questo divieto anche in Italia?
Assolutamente sì. Le stime parlano di 100 milioni all’anno, quindi 600 milioni in totale. E in un settore in cui i soli club di Serie A hanno perso 370 milioni solo nella stagione 2023/24 a livello aggregato, è un aiuto che è venuto a mancare. Gli operatori hanno comunque sostenuto il settore attraverso forme alternative e consentite dalla normativa, come progetti editoriali o di branding. Ma è evidente che questo divieto ha tolto tante risorse a un comparto centrale nell’economia.
Tutti pensano ai calciatori milionari, ma ci sono decine di migliaia di persone che lavorano nel calcio: agenzie editoriali, servizi, media. Non sono milionari, ma vivono grazie a questo mondo. Poi, anche se quei 600 milioni ci fossero stati, bisogna vedere come li avrebbero spesi. Negli anni ’80-’90, ad esempio, con l’arrivo delle TV, altri Paesi hanno usato quei soldi per migliorare le infrastrutture. In Italia invece i presidenti hanno comprato calciatori. Il beneficio si è esaurito in pochi anni. E a volte manco era un beneficio, perché magari compravi dei pipponi.
A proposito di presidenti spendaccioni… ti riferisci a qualcuno in particolare?
Beh, era il modello patronale. Presidenti che hanno dato tantissimo al calcio – come Berlusconi o Moratti – ma che non guardavano ai bilanci. Quando poi le famiglie hanno iniziato, intorno al 2010, a dire “non ce la facciamo più”, hanno lasciato. Anche se parliamo di persone che hanno vinto tanto, è chiaro che era un modello poco sostenibile. Era un’altra epoca: più romantica, certo, ma poco sostenibile.
Da tifoso interista, ricordo ancora l’arrivo di Ronaldo “il Fenomeno”…
Eh, esatto! I benefici li vedi magari oggi però. Quanti bambini sono diventati tifosi dell’Inter guardando Ronaldo? E oggi, quegli stessi bambini sono diventati adulti, tifosi affezionati, abbonati, clienti a tutti gli effetti. È difficile quantificare quei benefici. Se prendi un bambino e lo rendi tifoso a 8 anni, quel legame resta per tutta la vita. Magari smette di guardare il calcio, ma non cambia squadra.
Il lato romantico vale ancora. Non è misurabile concretamente.
Assolutamente. La passione è il vero motore del calcio. Ci sono tifosi che preferiscono una trasferta europea piuttosto che allungare le vacanze al mare. Il club calcistico, da un punto di vista aziendale, è come una utility: come A2A a Milano, o Acea a Roma. Il bacino d’utenza te lo costruisci da bambino. Non importa come lo gestisci, il tifoso resta tuo.
E questo tipo di legame può essere costruito anche grazie a progetti editoriali delle aziende di betting. Penso a Betsson.Sport, ad esempio, che fa iniziative interessanti anche su sport minori. Quanto spazio c’è per far crescere questo tipo di collaborazione?
Lo spazio c’è. La collaborazione non è finalizzata direttamente alla promozione del gioco, ma alla produzione di contenuti informativi. Se ben fatti – data driven, trasparenti, controllati – il rischio reputazionale si riduce. Si possono fare progetti per tifosi, anche piccoli, legati a statistiche, storytelling, educazione finanziaria, integrità dello sport. Dipende dagli operatori: se sono seri, credibili, con qualità editoriale, è un vantaggio per tutti. È come i cacciatori: nel rispetto della opinione di chiunque è indubbio che fanno educazione al rispetto del mondo animale. Se il fenomeno è sotto controllo, è una stampella in più per il settore.
Le nuove concessioni ADM impongono standard più elevati: trasparenza, antiriciclaggio, autolimitazioni, campagne obbligatorie. Guardando però al quadro economico complessivo, è realistico pensare che il calcio italiano possa essere sostenibile e competitivo all’estero anche senza il contributo – diretto o indiretto – del settore delle scommesse?
Il calcio italiano è in competizione con gli altri sistemi calcistici europei. È evidente che il betting può dare una grandissima mano. Poi, i decisori finali del calcio italiano sono sempre i presidenti. Se 20 anni fa, invece di spendere tutto in calciatori, avessimo investito in infrastrutture, oggi non ci troveremmo con questo ritardo strutturale che rischia perfino di farci perdere Euro 2032, se non corriamo a sistemare gli stadi. Ho preso nota di alcuni numeri: nel 2024 la raccolta fisica e online per le scommesse sul calcio in Italia ha toccato 16 miliardi di euro, di cui 2,9 miliardi solo sulla Serie A. Quindi non parliamo solo di impatto fiscale, ma anche di una passione reale del pubblico per il betting. Nessuno obbliga la gente a scommettere. Se esiste questa massa di denaro, è perché c’è un mercato, con tutte le dovute tutele per i casi di gioco patologico, ovviamente.
Ecco perché è fondamentale non tagliarsi da soli le gambe. Faccio un esempio: giochiamo partite promozionali in Australia, che è un Paese calcisticamente secondario, solo per farci vedere. Ma non sfruttiamo il potenziale concreto che abbiamo già qui, in casa, con un settore regolato e che può generare valore. Quindi, se c’è una cosa da fare, è sfruttare il potenziale interno, con regole chiare, e investire bene. Poi, come vengono spesi i soldi, lo decide la classe dirigente del calcio. Ma il potenziale c’è.
L’Australia è un paradosso. Ai tempi, per far conoscere il calcio italiano agli australiani, mandavamo Del Piero. Ma ora andiamo a giocare in Australia per promuovere il nostro calcio. Che senso ha?
Appunto. Una cosa è andare a giocare a Miami, come ha fatto la Liga, a un anno dal Mondiale per Club con investitori americani, in una terra calcisticamente rilevante in cui ci sono Messi e Beckham. Ben diverso è andare a Perth, in Australia, con fusi orari, voli interminabili, e scarso ritorno culturale.
Il problema reputazionale pesa allo stesso modo su tutti i club? O sono più colpite le piccole realtà?
Pesa, ma non allo stesso modo. I club sono più sensibili al rischio di associare il proprio brand a settori percepiti come borderline. Serve quindi chiarezza normativa, linee guida condivise, codici comportamentali, e operatori certificati. Se tutto è trasparente e conforme alle regole, ne possono beneficiare tutti.
Mi pare di capire che questa nuova legislazione ti convince…
Sì, perché non credo in uno Stato paternalista. Lo Stato deve mettere paletti, non vietare. Ho vissuto in Inghilterra, dove il betting è parte della cultura. A marzo, durante Cheltenham, le persone – anche anziane – scommettono una sterlina sul loro cavallo preferito. È come un piccolo Sanremo, è un rito collettivo. Siamo adulti: se possiamo votare, possiamo anche decidere se e quanto scommettere, ovviamente entro limiti regolati ed escludendo casi patologici. Senza ipocrisie, e con chiarezza.
Mi ricordo quando sono andato a vedere per la prima volta una partita di Premier League. Era un West Ham–Sunderland a Londra: tutti prima della partita passavano dal pub e scommettevano. Ma non era gioco compulsivo. Era quasi un rito tra amici.
Uguale per me. Quando ho fatto la comunione, mia madre mi fece giocare la prima schedina. Cifre irrisorie, certo, ma era parte del quotidiano. Serve educazione, responsabilità, trasparenza sugli algoritmi, investimenti nella prevenzione, e collaborazione sul match fixing ed educazione dei giovani. Soprattutto nelle serie minori, dove il rischio è più alto. Operatori seri e compliance potrebbero aiutare a prevenire quei problemi.
Guardando al futuro, con un mercato più regolamentato e meno restrittivo, i club sarebbero pronti a cogliere questa nuova possibilità? O si sono adattati allo status quo?
Secondo me sono prontissimi, anzi. I club più smart conoscono perfettamente il potenziale del settore. Per un revenue manager, dovrebbe essere un obiettivo strategico. E non solo per un vantaggio economico: il calcio ha un’enorme forza educativa. I club possono diventare amplificatori di consapevolezza, portare messaggi su gioco consapevole e gestione del rischio. Chi meglio di loro per farlo? Hanno una credibilità altissima presso tifosi e famiglie. Ci sarebbe una sinergia perfetta: entrate per i club, cultura del gioco responsabile per il pubblico.
Quindi, da un lato le entrate, dall’altro l’impegno educativo. È una sinergia?
Esatto. È una best practice da costruire: “io club prendo risorse, e in cambio ti aiuto a educare”. Credo che anche le società di betting siano interessate ad avere clienti sani, non patologici. Nel lungo periodo è meglio per tutti.
Con una bacchetta magica in mano: nei prossimi 5 anni, questo rapporto tra calcio e betting è destinato a tornare a crescere, a trasformarsi, o a rimanere congelato? E quali tra le realtà ne gioverebbero di più o ne risentirebbero, a seconda degli scenari?
Secondo me crescerà, però crescerà in forme nuove. Certo, magari anche nella forma tradizionale, ma soprattutto vedremo una best practice, partnership più selettive sui contenuti, sui dati, sulle community. E soprattutto, secondo me, emergerà una figura di legislatore digitale con regole più chiare. Ci sarà una distinzione netta tra operatori compliant e non. E questo pulirà anche il settore. Spero che in futuro potranno dialogare con lo sport solo gli operatori più trasparenti. Il betting sano porterà tantissime risorse, e dove ci sono soldi — si sa — non bastano mai, in nessun ambito.
Questo afflusso economico potrebbe fare pulizia anche nella relazione tra club e operatori. Poi, è chiaro: i club di Serie A sono solo 20, quelli di Serie B sono altri 20… Non stiamo parlando di centinaia di migliaia di squadre. Quindi il potenziale è alto, ma bisogna gestirlo bene. Ma attenzione: non bisogna cadere fuori dalla legalità. Penso ad esempio alla Serie C: 60 squadre in una sola categoria. Francamente, non so quanto sia sostenibile. E questo non è un problema del betting, è un problema del sistema imprenditoriale italiano. Dove li trovi 60 presidenti disposti a investire in squadre che, in molti casi, non hanno un bacino d’utenza sufficiente? Certo, in Serie C ci sono anche piazze storiche e importanti, ma comunque è l’unica terza divisione europea con 60 squadre. Forse è un’anomalia da normare diversamente.
E tra piccoli e grandi club? Chi ne beneficerà di più?
Ovviamente i grandi club avranno la fetta principale. Sponsorizzare Inter, Milan, Juventus ti dà un ritorno d’immagine molto più ampio che sponsorizzare, per dire, il Sassuolo. Ma il calcio offre visibilità anche ai piccoli. È l’unico settore che, ogni domenica, ti garantisce presenza continua in TV. E se sei un’azienda, anche sponsorizzare una squadra di Serie B ti porta in televisione. Sempre.
Penso a figure come Tohir. Quanto conta la visibilità del calcio per entrare nel “sistema”?
Conta moltissimo. Anche Cairo, prima di prendere il Torino, era già un ottimo manager, ma non molto conosciuto. Con il calcio ha guadagnato visibilità, poi ha comprato La7, RCS, Gazzetta. È diventato quello che è oggi anche grazie a quel trampolino. Il calcio in Italia è visibilità assicurata ogni domenica. Molti imprenditori hanno usato il calcio per espandere il proprio brand o network.
Non tutti ci sono riusciti però…
Esatto. Ferrero con la Sampdoria: imprenditore, ma non aveva la solidità né la scuola di Cairo. La differenza è anche nella preparazione e nella visione. Il Torino ha dato a Cairo accesso all’establishment della città, gli ha aperto le porte per operazioni complesse come l’acquisto di RCS, operazione non solo economica, ma sistemica. De Laurentiis anche ha costruito la sua credibilità gestendo il Napoli, partecipando alle dinamiche di Lega, imponendosi anche con le sue battaglie.
Il calcio resta l’argomento preferito degli italiani, anche in tempi difficili?
Assolutamente. Leggevo proprio ieri una statistica: il calcio è l’argomento più discusso in Italia, nonostante le guerre in corso, le crisi internazionali. Quando gioca la Nazionale, si ferma il Paese. Anche chi non segue il calcio si appassiona. È svago, è cultura, è identità collettiva. E in Europa, il calcio è un collante straordinario. Fa conoscere città, unisce le generazioni, accorcia le distanze.
Tornando al tema principale di quest’intervista, per chiudere: se fossi un dirigente di club oggi, che approccio adotteresti rispetto a un betting legale? Ti prepareresti o aspetteresti?
Mi preparerei, senza dubbio. Sarebbe irresponsabile non farlo. Tre cose farei: una due diligence interna al club sugli operatori per capire con chi si può lavorare; partnership orientate a contenuti e servizi, non solo visibilità; clausole contrattuali stringenti su gioco responsabile, target e comunicazione.
Bisogna evitare casi di genitori che dicono “mio figlio è diventato ludopatico per colpa della sponsorizzazione sulla maglia del club”. Serve massima attenzione. Il betting può tornare ad essere una fonte di ricavi importante. E serve arrivarci preparati, con idee chiare e responsabilità.
Denis Michelotti è direttore di sitiscommesse.com dal 2025. Vanta oltre dieci anni di esperienza in editoria digitale e product management, con collaborazioni per Sky Italia, Gracenote e realtà internazionali. Cura le strategie editoriali e lo sviluppo strategico del sito.

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